Settimanale avventuroso di letteratura
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INTERVISTA AI KAI ZEN

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La Strategia dell’Ariete è una spy story, un intrigo trans-nazionale, un indagine su forze occulte che impregnano le azioni umane, dal regno di Cheope all’America post-roosveltiana passando dalla Shangai degli anni ’20 al Paraguay durante la seconda guerra mondiale. Ogni location, ogni nuovo personaggio è una sorpresa, una sfida di adattamento per il lettore. Gli […]

La Strategia dell’Ariete è una spy story, un intrigo trans-nazionale, un indagine su forze occulte che impregnano le azioni umane, dal regno di Cheope all’America post-roosveltiana passando dalla Shangai degli anni ’20 al Paraguay durante la seconda guerra mondiale. Ogni location, ogni nuovo personaggio è una sorpresa, una sfida di adattamento per il lettore. Gli autori dell’Ensamble Narrativo Kai Zen scommettono sulla pluralità di punti di vista, l’intreccio narrativo sembra un gioco collettivo senza regia apparente, fughe temporali e spaziali lasciano il lettore con un pugno di mosche. Qual è l’idea che sorregge La strategia dell’Ariete? Il conflitto tra ordine e caos? La lotta tra bene e male? Ne abbiamo parlato in occasione della selezione de La strategia dell’ariete nella terzina finalista del Premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari . 

Come è nato La strategia dell’Ariete? Quali suggestioni l’hanno messo in moto? Da quale idea siete partiti?

La SDA è nato quasi per gioco da un “guazzabuglio” di fascinazioni del momento. Le ambientazioni, i personaggi, le epoche storiche sono frutto della pura e semplice voglia di raccontare e di osare. La storia è venuta da sé. Cercavamo un filo d’Arianna che mettesse assieme l’impossibile, come accade più o meno in ogni libro.


Ci sono quattro ambientazioni fondamentali: l’Antico Egitto durante il regno di Cheope, la Cina degli anni ’20, il Sudamerica degli anni ’40 e gli Usa degli anni ’50. Il respiro di Seth è il filo che tiene insieme la trama narrativa. Come ci avete lavorato? Avete montato i pezzi a posteriori o strada facendo?
Abbiamo lavorato alla trama, in prima battuta abbiamo delineato gli eventi principali e i nodi di raccordo. Ognuno di noi ne ha preso un pezzo e lo ha portato avanti, intessendo con una certa libertà alcune sottotrame. Ogni capitolo veniva editato a turno da ognuno di noi. Una volta stese le parti principali le abbiamo scambiate e anche in questo caso ognuno di noi ha riscritto ed editato ogni singola parte, tenendo ben presente gli indizi e i dettagli disseminati in precedenza… Alla fine abbiamo scritto qualche capitolo di raccordo, tagliato e aggiunto. Insomma a turno abbiamo fatto da registi e da troupe. Avevamo in mente un primo montaggio che a mente fredda si è rivelato eccessivamente caotico e concitato. Abbiamo provato diverse combinazioni fino ad arrivare a quella definitiva che ci è sembrata la più soddifacente e soprattutto la più fruibile dal lettore.

Torniamo alle ambientazioni: perché il Regno di Cheope? Perché i nazisti rifugiati in Paraguay e ammanicati con le multinazionali americane (e perché la guerra del Chaco)? Perché la Shangai degli anni ’20 e la contiguità tra maoisti e mafia cinese? E infine perché l’America maccartista?

Un po’ per caso, un po’ per il fascino di luoghi e tempi; e un po’  perché nel dipanarsi della storia ci siamo accorti che in qualche modo  tutte le epoche che abbiamo preso in considerazione sono epoche di decadenza, di confine, di passaggio. La contiguità, la promiscuità della società e dello spirito di quelle epoche fatte di crolli si sono rivelate essenziali per esplorare i personaggi che abbiamo messo in scena. Anime in frantumi. Inoltre, andando avanti con le ricerche per raccogliere la documentazione preliminare alla scrittura, ci siamo resi conto di alcune notevoli occasioni narrative che non ci erano note. Il tuo esempio relativo alla contiguità tra maoisti e mafia cinese, per esempio. In realtà la cosa è più complessa, non si trattava di mafia, ma di società segrete, società di mutuo soccorso poi tramutatesi in gang criminali, e uno degli intenti dello stesso Mao Tse Tung era quello di avvalersene per portare a compimento il suo progetto rivoluzionario. Vero è anche l’episodio descritto nel libro, quando il Kuomintang nel 1927 usa proprio una di queste società, quella del Cerchio Verde, per fare piazza pulita dei comunisti nel giro di una notte. La guerra del Chaco invece l’abbiamo (ri)scoperta mentre facevamo ricerche per la parte sudamericana. È una guerra del tutto, o quasi, sconosciuta ma in realtà è il primo conflitto inteso in senso contemporaneo in cui implicazioni economiche estranee ai reali interessi dei paesi coinvolti sono il vero motore della macchina bellica. In fondo al libro abbiamo dato spazio all’approfondimento di questa e di altre questioni e sul sito l’intera guerra viene raccontata da uno dei personaggi della SDA, Arthur Fillmore, che vi ha preso parte in gioventù… Kai Zen lavora ad otto mani: come avete fatto ad omogenizzare gli stili, a smussare certi personalismi stilistici? Cosa si guadagna e cosa si perde a scrivere in collettivo? Come si fa a contenere il narcisismo che domina inevitabilmente ogni scrittore?

La risposta è: il tempo. Il tempo speso a lavorare sul romanzo (più di tre anni), la pazienza da artigiano nel rileggere, riscrivere, modificare, adattare. Questo aspetto è quello che forse ci ha più sorpresi dopo i primi anni di lavoro insieme: l’importanza dell’editing, della riscrittura e’ uno dei perni della narrazione a più mani, il fatto che si debba trovare l’amalgama giusta, il ‘quinto stile’, quello di Kai Zen. Nella pratica, crediamo di essere innanzitutto amici, quasi una famiglia, e questo costituisce la base di fiducia reciproca e accettazione delle opinioni differenti. E poi negli anni abbiamo imparato a conoscerci, sappiamo chi sa fare meglio una cosa e chi un’altra, e in automatico facciamo sì che i differenti apporti convergano nel risultato finale. Nulla di semplice e scontato, anzi. Siamo pieni di problemi, così come qualsiasi entità vivente di questo pianeta.
 

Nel romanzo ci sono personaggi indubbiamente positivi come il cinese Shanfehg e la creola Felipa, che però servono la “causa del male”. Questo è un tratto distintivo del libro, districare il bene dal male non è possibile, il caos prevale e al suo interno l’unica certezza è la strategia di Al-Hàrith, una strategia auto- referenziale. È un’idea politica la vostra o è solo narrativa?

È una questione di Weltanschaung, non di politica, la politica come diceva Camus è un affare da massaie, serve a tenere in ordine la cucina. La narrativa ha la capacità di sfuggire a idealismi e moralismi al di là dell’ismo a cui è votato il narratore stesso. La vita è quello che è, dal canto nostro non abbiamo nessuna intenzione di raccontare, e tanto meno spiegare, come dovrebbe essere. Semplicemente inventiamo storie in cui proviamo a indagare la condizione umana e cerchiamo di renderla vivace, immaginifica, esagerata dal punto di vista narrativo senza giudicarla con empatia o disprezzo. E poi è molto più divertente mischiare le cose, il Bene e il Male e spiazzare chi legge.

In questo senso che cos’è, cosa rappresenta il demone di Al- Hàrith? Il tentativo di dominio dell’uomo sull’uomo? Credete che sia un filo dell’agire umano?

Al-Hàrith è il male necessario, senza il quale non esisterebbe il bene. È il rovescio della medaglia. Nel libro assume caratteristiche mitologiche, viene inseguito da vari personaggi ma mai intrappolato o controllato del tutto. Ovviamente non crediamo al bene e al male assoluti e così, nello svolgersi del racconto, la strada per il paradiso si rivela spesso lastricata di cattive intenzioni e quella per l’inferno di buone. Volendo, anche in questo caso, AH potrebbe essere letto come metafora dell’agire umano, c’è da dire però che oltre bene e male ogni personaggio deve fare i conti con qualcosa di molto più rispettabile e temibile: il caso.
 

La strategia dell’Ariete sembra un romanzo d’intrighi, ma proprio perché alla fine Al Hàrith è una cosa sfuggente e incomprensibile, sembra una parodia del complottismo? Sbaglio?È sfuggente e incomprensibile come il male necessario. È un’allegoria generica, adattabile a diversi concetti (qualcuno ha scorto in esso i tratti del capitalismo: chi incontra il demone muore, chi non muore diventa schiavo, chi non diventa schiavo diffonderà il demone…) Allo stesso tempo AH è un divertissment, una parodia di certa letteratura. Il complotto, il terribile segreto, i manovratori occulti, la CIA, il nazismo esoterico, il controllo della mente… Abbiamo giocato con alcuni stereotipi e ci siamo divertiti. AH in fondo però non è l’elemento centrale del libro anche se ci è piaciuto farlo credere. Anzi all’inizio il libro doveva intitolarsi proprio Al-Hàrith.
 

Mi pare che la vostra priorità sia stata giocare con il genere del thriller, smascherandolo. Deviare l’attenzione del lettore su particolari irrilevanti, confondere le acque per arrivare a chiedersi se alla fine Al-Hàrith esista davvero. La letteratura è un gioco?

La letteratura è di sicuro il gioco più divertente inventato dall’uomo e non occorre scomodare Borges per affermarlo. Il nostro approccio a essa è senza dubbio ludico, a cominciare dal metodo che utilizziamo per scrivere, una specie di sciarada (in cui è consentito barare). Per noi raccontare una storia significa anche suscitare emozioni o tensione e ci piace l’azione. Da qui la passione per il thriller, la volontà di disseminare tranelli, misteri, dettagli e di giocare con chi legge. Allo stesso tempo proviamo un gusto perverso nel rimescolare le carte in seno ai generi. Thriller, sì certo, ma anche spy story, fantascienza, noir, romanzo storico, un pizzico di rosa e soprattutto avventura. Oltreoceano e oltremanica lo definiribbero new weird. Abbiamo anche una certa pericolosa inclinzione per il Feuilleton, nella spinta letteraria dal basso, nella voglia di raccontare, e per il fumetto, nell’approccio cinematografico. Si tratta di un’attitudine lontana dagli stereotipi dello scrittore ‘penna ispirata da Dio’.
 

Che ruolo ha avuto il cinema (e quale cinema?), i fumetti, nello scrivere la Strategia dell’Ariete? L’architettura del romanzo mi fa pensare anche ai giochi di ruolo, oltre che ai meccanismi interattivi facilitati da internet. Quanto ha contato ciascuna di queste cose?

Il cinema ha inevitabilmente condizionato l’intero modo di scrivere degli ultimi decenni. Descrivere una scena come se la si filmasse è parte del dna della narrativa contemporanea, accusata di essere spuria. In realtà incorporare la scrittura tipica di cinema e fumetto nella letteratura, se fatto con coscienza dei mezzi, può essere un arricchimento. Il segreto, pensiamo, sta nella giusta via di mezzo. Forse in certe parti del romanzo abbiamo esagerato con la narrazione filmica ma crediamo di aver fatto un buon lavoro di amalgama. Ma se da un lato le influenze esercitate su di noi dalla pellicola, hanno aumentato i giri del motore, dall’altro quelle derivate dai fumetti hanno rallentato il ritmo. Abbiamo cercato un’armonia narrativa che potesse collocarsi tra Kill Bill e Corto Maltese. Il ruolo più grande però, alla fine, lo ha giocato la letteratura. I libri che abbiamo letto prima e durante la stesura della SDA.Siete arrivati in finale al premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura e l’autore de Le tigri di Mompracem? I personaggi di Salgari come il Corsaro Nero e Sandokan sopravvivono al tempo e fanno parte stabilmente del nostro immaginario: si può ancora scrivere letteratura d’avventura e in che senso? Oppure quello che facciamo oggi è ri-scrivere? Ha un rapporto con lo scrivere in gruppo e con il pubblicare in copyleft?

L’avventura è un genere che permette di travalicare i generi. Può portare al suo interno i semi di tutti gli altri. Può essere un po’ gialla e un po’ noir (Shelley), può avere delle connotazioni fantastiche e fantascientifiche e addirittura un pizzico di realismo magico (Felipa) e soprattutto consente allo scrittore di manipolare una quantità esagerata di materia narrativa allo stato puro. Salgari scriveva usando come carta geografica l’immaginazione, noi abbiamo fatto più o meno lo stesso. Degli scenari che abbiamo descritto ne abbiamo visitati solo alcuni, altri sono frutto di un lavoro che ha coinvolto ricerca e fantasia. Il Corsaro Nero e Sandokan sono archetipi rivisitati, come ogni personaggio avventuroso che si rispetti. Noi non abbiamo fatto altro che rendere attuali questi archetipi, li abbiamo fatti passare (in)consciamente sotto le forche caudine della modernità: Nietzsche, Freud e Marx. Dietrich Hofstadter non è altro che il Corsaro Nero alle prese con la sua volontà di potenza, con il suo subconscio e con il materialismo storico… Quello che facciamo oggi, come ieri, è riscrivere. Non si inventa nulla di nuovo, se non il modo di raccontarlo. È una questione di endocetti e di archetipi. Non riguarda naturalmente solo la scrittura collettiva, ma anche l’autore singolo. Il copyleft poi è semplicemente una presa di coscienza nuda e cruda di questo semplice assunto. La letteratura, come la matematica, come la musica e come tutto lo scibile umano non inventa gli elementi ma crea nuovi modi di combinare quelli già esistenti. La creazione di un nuovo mito non sarebbe altro allora che la nobile arte di scombinare e ricombinare le cose. 


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