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Kurdistan: il paese delle storie

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Dal 30 novembre al 6 dicembre si è svolta la quinta edizione del London Kurdish Film Festival
Film. Documentari. Cortometraggi

Sono partita il 1 dicembre da Bologna alla volta di Londra. Volo. Arrivo a Gatwick. Ritiro bagaglio e primo bancomat. Treno per London Bridge. Taxi (nero) per il cinema Rio. 13 pounds. Un buon prezzo, considerato quanto costa il taxi in Italia.

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Arrivo al cinema alle 21, sono in ritardo di un giorno, la quinta edizione londinese del Festival del cinema kurdo si è aperta il 30 novembre.

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La hall è piccola e affollatissima hall
Arranco con la mie due valigie, zeppe di vino italiano e di formaggi. G.M., l’amico curdo di cui sarò ospite, mi vede ma non può raggiungermi perchè è il cuore organizzativo dell’evento e tutti hanno bisogno di lui. Così mi ritrovo direttamente seduta in sala, in un angolo le mie valigie. Sono arrivata appena in tempo per la proiezione di Les Toits de Paris, un film sulla solitudine degli anziani a Parigi.
Hiner Saleem dopo la proiezione

Un film del regista kurdo iracheno Hiner Saleem, molto francese, nei ritmi e ovviamente nell’ambientazione. Un film poetico sulla fatica di accettare il declino. In sala gli spettatori sono sopratutto curdi: la comunità londinese, che vanta quasi centomila membri, porta sulle spalle tutta la fatica organizzativa, mi è subito chiaro che questa è soprattutto un’occasione per rinforzare il senso di identità della comunità locale e degli intellettuali della diaspora.
Il pubblico del cinema Rio

Perchè il Kurdistan è un paese che non esiste sulle cartine geografiche e si divide tra Iraq, Iran, Turchia e Siria. Trenta milioni di persone senza una cittadinanza comune. E tre milioni di espatriati.
Dopo il film, a cena, sono ospite del comitato organizzatore. Scoprirò poi di aver cenato con la crème dei registi e attori curdi. Qualcuno mi chiede se posso considerarmi “tipicamente italiana”. Non so come rispondergli, perchè in effetti anche loro non corrispondono quasi mai allo stereotipo del curdo: qualcuno sembra turco, qualcuno arabo, qualcun’altro potrebbe essere un meridionale italiano. E c’è anche qualche biondo con gli occhi azzurri.

A fianco a me c’è Jano Rosebiani che vive a Los Angeles e fa il produttore cinematografico. Dice che il film di Saleem è importante perchè non è chiuso in se stesso, non si rivolge solo ad un pubblico curdo, ma dimostra quanto questo cinema sappia essere sensibile al mondo. E sa accogliere finanziamenti per il cinema laddove ci sono. Perchè il grande problema di un cinema nazionale senza nazione è quello di non poter avere una industria cinematografica degna di questo nome. Domenica 2 dicembre arrivo al cinema a mezzogiorno e ci passo l’interna giornata, guardo documentari e cortometraggi in concorso. Tantissime le produzioni del Kurdistan iracheno, fino a poco tempo fa l’unica zona che abbia goduto di un momento di pace, di autonomia e di sviluppo (le ultime notizie riportate sul Il manifesto del 19 dicembre dimostrano quanto fugaci siano queste mie parole…). Le vicende storiche dei curdi in Iraq ma anche la condizione delle donne: femministe curde che lanciano le proprie invettive contro una società patriarcale e tribale che le condanna ad una condizione di subalternità. In cui l’atto estremo di ribellione delle donne è darsi fuoco. Sono particolarmente impressionata nello scoprire che si usa circoncidere le ragazze e le bambine (un modo delicato per dire infibulazione?). Ripenso alla manifestazione delle donne di Roma contro la violenza sulle donne, alla rabbia e al ruolo di vittime che aleggia ancora in questi documentari. La sera si proietta il secondo film di Saleem. Dol: The valley of tamborines. Ambientato in un villaggio curdo al confine tra Turchia, Iran e Iraq. Azad e Nazenin dovrebbero sposarsi ma la loro storia d’amore resta intrappolata inaspettatamente. L’intervento dei militari turchi durante il matrimonio costringe Azad alla fuga, una fuga rocambolesca attraverso l’Iraq e l’Iran, sostenuta dalla solidarietà transanazionale dei curdi, ma che non approderà ad un lieto fine. L’arbitrarietà dei confini è uno dei temi ricorrenti: comunità unite da legami familiari e clanici costrette a escogitare sotterfugi e ad aggirare la realpolitik delle armi delle guardie di frontiera. Come anche nel cortometraggio vincitore, Border.

Un cinema dotato di una inaspettata vena comica. Come quando il generale turco, spazientito di fronte alle canzoni in curdo al matrimonio di Azad, chiede una canzone in una lingua “non barbara” e il cantante intona un pezzo in inglese. Perchè ai curdi in Turchia (da quest’ultima definiti inappropriatamente turchi della montagna) non è concesso nemmeno parlare la propria lingua.

La commedia dicevamo. All’aereoporto norvegese Renas riceve la sua promessa sposa, curda come lui. Il suo sguardo non riconosce la ragazza della fotografia di cui si è innamorato a distanza. Winterland, del giovane regista Hisahm ZamanHisham Zaman mi ricorda Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata. E nel silenzio ovattato della neve ogni sguardo e ogni gesto rimbalza negli occhi dello spettatore con una irresistibile verve comica.

Oppure ancora come in My beatiful son will be the king, premio della giuria per il concorso dei corti, un gioiello di 9 minuti in cui il piccolo protagonista handicappato si esibisce a fare il sollevatore di pesi, il musicista rock, il fotografo, di fronte allo sguardo silenzioso delle sorelline, mentre è costretto al ruolo di malato ogni qualvolta il volenteroso dottore lo visita e sollecita dal padre l’operazione chirurgica.

L’handicap ritorna spesso, in documentari e corti, un po’ come effetto dei gas tossici che Saddam Hussein lanciò generosamente tra 1987 e 1988, prodromo della prima guerra del golfo. Un po’ a svelare la fatica di vivere di un mondo rurale blandito da qualche segno di modernità ma pesantemente condannato dalla mancanza assoluta di servizi sanitari, infrastrutturali per tutti, figuriamoci per i diversamente abili. Ciechi, muti, persone in carrozzina. Come il padre di Water, terzo posto nel concorso dei corti. Costretto su una carrozzella ad assistere impotente alla violenza sessuale perpetrata sulla figlia da un volenteroso venditore di latte.

La sera si discute animatamente, ci sono scambi di contatti, finchè il vino francese non fa il suo effetto e si balla con canti e percussioni, tutti vicini, spalla contro spalla, un ballo collettivo non individualista, come tante altre cose qua.
014.jpg Danze
Qui molti sono cittadini britannici o tedeschi. Altri sono rifugiati politici. In questo secondo caso non possono rientrare in Turchia o in Iran o in Iraq. Per chi ha un passaporto europeo significa invece godere di una enorme possibilità di movimento, poter girare film in Kurdistan, promuovere lo sviluppo del cinema.

Alan Amin vive a Manchester e mi fa da interprete con Sirwan Rehim013_sirwan-rehim.jpg, curdo residente in Germania, membro della giuria. Sono stati compagni di giochi da bambini a Kirkuk, adesso si sono ritrovati qui. Gli vedo luccicare gli occhi dopo l’ultima proiezione di Can, un film sui conflitti razziali e di classe in Germania, e sul bullismo come estrema forma di difesa della propria identità per le minoranze emarginate. “Vanno bene questi film anche se non sono di tema curdo. Abbiamo tante storie da raccontare, noi chiamiamo il Kurdistan il paese delle storie”. Un paese che è un luogo dell’anima e che si offre alla storia di Ruben Rodriguez, musicista per le strade di Buenos Aires, vittima della dittatura argentina, raccolta da Kia Aziz o a quelle dei tanti poeti, pittori e musicisti esuli, Sivan Perwer e i Berxwedan in testa, sparpagliati per mezza Europa.

009_a-amins-qadirk-aziz.jpgNella foto, Alan Amin, regista di Black days, con l’attore Saho Qadir, paratleta che perse le gambe ad Halabja durante l’attacco con i gas di Saddam Hussein.

012.jpgNella foto, il secondo da sinistra è Jano Rosebiani affinancato dall’attore protagonista di Water

testo di Giulia Gadaleta

tutte le foto sono di Roberto Giussani (c) 2007


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